Piero – cooperante in Bolivia, Guinea Bissau e Mozambico

Piero – cooperante in Bolivia, Guinea Bissau e Mozambico

Fare il cooperante per una Ong girando per il mondo è possibile? Certamente: non solo in quanto volontario ma anche come vero e proprio dipendente. Dopo aver raccontato la storia di Serena in Salvador e diverse parti di Centro America e Africa, a parlarci della sua esperienza dapprima in Bolivia e poi in Guinea Bissau e Mozambico è Piero, che da 9 anni lavora al di fuori dell’Italia in questo settore.

Nato a Milano si è poi trasferito a Pisa, successivamente ha frequentato l’università a Torino e da lì si è spostato in Val D’Aosta. Studente di agraria sin dalle superiori, si è laureato appunto in quest’ambito e “per varie vicissitudini” è finito a fare un periodo di Servizio civile in America latina proprio seguendo un progetto in ambito agricolo. Da lì è nato l’amore per il lavoro del cooperante, che negli ultimi quattro anni lo ha portato in Mozambico. Lo abbiamo intervistato mentre si trovava in Malesia, durante un “periodo sabbatico” di vacanza insieme alla moglie Ilaria – anche lei operativa nello stesso ambito.

Cosa fa un cooperante

“Ho avuto la possibilità di portare avanti una carriera accademica, ma con l’esperienza in Bolivia ho conosciuto il lavoro del cooperante da vicino, anche se è difficile da fare e spiegare”. D’altronde, spesso nell’immaginario collettivo la professione di Piero non viene nemmeno considerata un vero e proprio lavoro. “Noi non siamo volontari, abbiamo contratti e siamo pagati. Abbiamo una professionalità, inoltre dobbiamo sempre dimostrare come usiamo i fondi e i risultati dei progetti. Uno dei grossi problemi della cooperazione italiana sta nella comunicazione di questi concetti, l’ultimo a farlo nel modo corretto è stato Gino Strada per Emergency; e poi ci sono anche questioni politiche… Il problema è che le Ong non hanno saputo comunicare bene in questi anni, tra l’altro nel terzo settore viene richiesta molta trasparenza: noi facciamo parte di questo mondo ma siamo un po’ miopi proprio perché non si chiarisce cosa facciamo”.

Come si può iniziare a lavorare per una Ong? “Bisogna rispondere alle vacancy ed essere scelti, ci sono tanti siti appositi su cui si può andare a cercare: solitamente vengono indicate la funzione e il Paese in cui è richiesta. Se ti fidelizzi alla Ong, poi, può capitare che sia la stessa organizzazione a mandarti in altri Paesi. Purtroppo però il nostro è il classico mondo del precariato, nel senso che non c’è la possibilità di avere un contratto a tempo indeterminato in un Paese, anche perché la speranza è che l’organizzazione chiuda un lavoro in un Paese perché non ne ha più bisogno”.

Il lavoro di cooperante in America latina e Africa

Piero ha inizialmente scelto la Bolivia per una questione linguistica, dal momento che già conosceva lo spagnolo, e perché le Ande lo hanno sempre ispirato. Il Servizio civile, “programma bellissimo che purtroppo raccoglie sempre meno giovani”, consisteva in un progetto agricolo su una tematica specifica che lo interessava.

Nel Paese latinoamericano ha anche conosciuto sua moglie Ilaria, quindi “da allora cerchiamo di viaggiare insieme e lavorare negli stessi Paesi, nonostante operiamo in organizzazioni diverse”. “Non sempre ci siamo riusciti, ad esempio quando è scoppiata la pandemia lei lavorava in Afghanistan ma poi è rimasta bloccata in Italia: per 10 mesi non ci siamo visti e da lì abbiamo deciso di sposarci anche per una questione di Visti, altrimenti sarebbe stato complicato vederci”. Così, la coppia ha celebrato un matrimonio online: entrambi si trovavano in Mozambico ma i parenti hanno assistito alla cerimonia dall’Italia collegati dal pc. “Ci siamo sposati nell’ambasciata italiana in Mozambico, il 28 maggio 2021, e abbiamo fatto la festa dopo un anno in Italia”.

Ma torniamo al lavoro di Piero: partito come capo progetto, è poi passato al ruolo di rappresentante del Paese in cui operava (ovvero direttore nazionale). “L’aspetto dell’agricoltura è andato sempre a diminuire, perché sono passato ad avere la gestione diretta di un Paese e non più di un progetto solo. Il campo purtroppo rimaneva una minima parte, avevo più incombenze gestionali e legali: ad esempio controllare che vi fosse il rispetto delle normative e curare il rapporto coi donatori nonché con le autorità locali per lavorare al meglio con la popolazione, ma anche scrivere nuove proposte partendo dalla problematica e capendo come rispondervi”. Ma soprattutto, come sottolinea lui stesso, il lavoro del cooperante deve rispettare la cultura e la popolazione locali, non imponendosi ma creando le giuste condizioni per far fiorire le loro capacità e il territorio. “Quando arrivi nel Paese è importante saper ascoltare e vedere: un team nazionale è la fonte di informazione primaria, il problema è che a volte chi vive sul posto non vede il problema perché fa parte della normalità; però queste persone ti danno tutto il contesto, poi si cerca insieme una soluzione che spesso per loro è innovativa. Girando nei vari villaggi e comunità si vedono determinate realtà ma ci si rende conto anche delle similitudini tra le varie etnie e religioni che danno una maggiore sensibilità. Se pensiamo all’ambito agricolo, nei diversi Paesi africani e del Sud America sono molto simili le caratteristiche delle divisioni dei ruoli tra uomo e donna in agricoltura. E poi bisogna studiare tanto”.

Diversi progetti di cooperazione per diverse realtà

I progetti portati avanti da un cooperante possono essere di due tipologie: di emergenza, in particolare in zone di conflitto o post disastro naturale, che variano dai 3 ai 9 mesi; e di sviluppo che durano oltre 2 anni, per i quali è spesso difficile trovare finanziamenti (soprattutto se si pensa che quelli agricoli avrebbero bisogno di 5 anni per lavorare bene). “Le Ong cercano di trovare continuità con altri finanziamenti ma non è sempre detto che ci riescano, a volte ci sarebbe tanto altro da fare ma mancano i fondi“. I finanziamenti arrivano per lo più da Unione Europea, agenzie delle Nazioni Unite e varie cooperazioni (tra cui l’Agenzia italiana di cooperazione allo sviluppo) ma anche donatori privati (fondazioni, imprese, privati stessi).

Un esempio di progetto che hai seguito in questi anni come cooperante? “Nell’area nord del Mozambico dal 2017 c’è un conflitto portato avanti dagli insurgenti (gruppi armati non statali, ndr) chiamati terroristi dal governo. La Ong We World è attiva dal 2000 sul posto e conosce molto bene il contesto: al momento è presente oltre 1 milione di sfollati interni. In questo progetto socio-psico-culturale usavamo arte, sport e cultura per cercare di far superare il trauma a chi ha visto familiari uccisi e case distrutte – queste persone sono state obbligate ad abbandonare tutto ciò che avevano costruito in una vita – rafforzando la coesione sociale. Ci sono villaggi che stanno ospitando la popolazione che è scappata, quindi noi lavoravamo sul superamento del trauma e dei suoi effetti dando spensieratezza a coloro che si ritrovano a vivere in una nuova comunità. Le attività sono state contestualizzate ai villaggi: abbiamo ad esempio realizzato dei disegni utilizzando teloni e poco altro (stile murales) con un artista locale che coinvolgeva la popolazione. Per lo sport stesso discorso: dal calcio ad attività inventate (come quelle che in Italia facciamo in parrocchia o con gli scout) ma anche giochi comunitari come rubabandiera che coinvolgevano tantissimi adulti. Pochi mesi fa mi hanno mandato le foto dei loro giochi senza frontiere, che possono sembrare banali ma in una zona di conflitto con poche risorse hanno permesso alle diverse etnie di conoscersi e sopravvivere insieme. Un’altra attività artistica è stato l’uncinetto con materiali di recupero, ad esempio i sacchetti di plastica: abbiamo formato gruppi misti grazie all’aiuto di formatrici, gli uomini si sono dimostrati molto più bravi delle donne essendo pescatori (già cucivano le reti da pesca e i mussulmani si realizzano il cappellino da soli); alcuni gruppi sono diventati talmente bravi che hanno comprato fili normali da uncinetto”.

Il bello e il brutto del lavoro di cooperante

Qual è la parte più bella e quale quella più brutta del lavoro di cooperante? “La più bella è vedere in un progetto una trasformazione, dall’inizio alla fine, perché tu ma soprattutto tutto il tuo gruppo di lavoro ne siete protagonisti. La parte più brutta e complessa è quando i finanziatori cambiano le priorità, molte volte per ragioni politiche: ad esempio quando si sta facendo un lavoro sulla coesione sociale ma finisce il finanziamento e non si dà continuità alla tua o ad altre organizzazioni. Si consideri che ci sono settori con bassissima se non nulla sostenibilità finché qualcuno non ci mette un progetto e le risorse, quindi vedere che tutto ciò finisce prima del tempo è davvero brutto. Inoltre, è difficile mantenere il rapporto con le autorità. A livello umano questo lavoro dà tantissimo: bisogna mettere in chiaro che il cooperante deve avere un contatto con la popolazione locale ma non dare un insegnamento diretto, noi serviamo a coadiuvare e seguire il team di professionisti locali, sono loro che devono avere il rapporto diretto con la popolazione anche perché conoscono meglio il contesto in cui si opera. Però a me come cooperante piace molto andare sul campo perché si può imparare la lingua locale e questo aiuta molto: in Guinea Bissau parlavo appunto il creolo. Comunque basta uno sguardo, la popolazione vede te direttamente per il progetto ma quando si riesce a vedere il percorso trasformativo delle persone appaga tutte le sofferenze”.

Lavorare nella cooperazione internazionale

Consiglieresti questo lavoro? Da dove si può partire per diventare cooperante? “Lo consiglio assolutamente ai giovani, suggerisco di informarsi perché questo è un mondo molto interessante e dà tante possibilità per iniziare la carriera – anche partendo dal Servizio civile che viene ben pagato oppure a livello europeo come volontariato professionalizzante. Dopo qualche anno si deve decidere se continuare o se è stata solo la parentesi di un periodo, per me è uno dei lavori più gratificanti e che ti dà la possibilità di gestire progetti importanti dalla a alla z: nessuna impresa italiana darebbe questa possibilità di gestione a 360 gradi. Per me è il lavoro più bello che c’è. Penso che non si debba stare per troppo tempo in un Paese perché altrimenti si perde il giusto punto di vista sulle problematiche, inoltre più esperienze si fanno e più si impara.

Alla fine, la chiacchierata con Piero mi ha permesso di aprire un po’ di più gli occhi sul mondo delle Ong, spesso sottostimate oppure considerate come vere e proprie organizzazioni (mal organizzate, in realtà) di volontari o criminali che non rispettano le leggi. Il dibattito politico e il “problema” delle migrazioni, soprattutto in Italia in questo momento, non aiuta certamente a fare chiarezza sulla realtà di queste organizzazioni. E quindi grazie, Piero, perché sono le persone come te che possono aiutare a dare informazioni precise sul vostro lavoro e farci comprendere cosa realmente fate e la vostra azione essenziale per quei Paesi spesso dimenticati dalle cronache. Per chi volesse maggiori informazioni sull’organizzazione per cui Piero opera: qui il link al sito web della Ong WeWorld.

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